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Cinema e prospettive

Sia il modo in cui il mondo è interpretato il mondo che lo sguardo dietro la macchina da presa sono prospettive, nel cinema. Approfondisce questo concetto Luigi Paini, attraverso l’analisi di alcuni lungometraggi che hanno fatto la storia del cinema.

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Chi guarda, al cinema, si nasconde. Di norma, se il film “funziona”, dopo pochi fotogrammi ci dimentichiamo che si tratta dell’opera di una persona in carne e ossa. Si chiama “regista”: sono i suoi occhi a vedere attraverso la macchina da presa, è la sua sensibilità artistica a creare la riconoscibilità di uno stile, il suo fascino oppure la sua debolezza strutturale. Lo sguardo di John Ford, il più grande dei registi americani, il classico dei classici, è immediatamente riconoscibile, come un quadro di Raffaello o Piero della Francesca o Michelangelo. Il suo sguardo si oggetti vizza nel suo stile, la “prospettiva” con cui guarda il mondo diventa riconoscibile a prima vista, appena la nostra sensibilità di spettatori si fa più accurata. Ma non è solo questione di sguardo, di occhi: il termine prospettiva è più ampio, indica anche il modo in cui il mondo è interpretato. La prospettiva di Ford, per restare all’esempio, è quasi sempre quella epica, senza però mai dimenticare le sottolineature liriche. Gli sconfinati paesaggi del West (la Monument Valley sopra tutti) e i sentimenti umanissimi dei protagonisti, la guerra e l’amore, la forza e la crudeltà dei conquistatori e il rispetto doloroso per la cultura dei popoli indigeni distrutti. Attraverso l’indicazione dei film di altri grandi registi, cercheremo di scoprire una parte di questi intrecci. Bisognerà non fermarsi alla “trama”, ma fare uno sforzo in più: individuare gli occhi, fisici e mentali, di chi sta dietro, ben nascosto, alla macchina d presa.

La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock, Usa 1954

Il mondo visto attraverso una finestra. Una finestra sul cortile, come recita il titolo italiano (Rear Window in originale): attraverso quel “buco nel muro”, paragonabile all’obiettivo della macchina da presa, il protagonista riesce a sbirciare nelle case dei vicini. Costretto per qualche settimana su una sedia a rotelle, si diletta a spiare gli altri. Senza malizia, in realtà, solo per passare il tempo, come facciamo noi al cinema, “sbirciando” il mondo attraverso il “buco bianco” dello schermo. Dunque, qui già si intrecciano almeno due prospettive: quella, palese, del protagonista, e quella, nascosta, del regista. Ma Hitchcock non si accontenta di questo “semplice” gioco di specchi. Alza la posta facendo coincidere il nostro sguardo, attraverso il procedimento della “soggettiva” , con quello del curiosone alla finestra. Lui, il regista e noi vediamo (crediamo di vedere) esattamente la stessa realtà. Che si dimostra però molto ambigua: il vicino di casa è un tipo normale, oppure un essere losco che ha appena compiuto un omicidio? Come interpretare i segni che vediamo sullo schermo? Eccolo l’essenza del “gioco” di Hitchcock: lui vede tutto dalla prospettiva del gatto, che si diverte un sacco a far impazzire il topo. Anzi, i topi: il protagonista, alle prese con un enigma da decifrare, e noi spettatori, che ne sappiamo quanto lui, e come lui, progressivamente, tentiamo di risolvere il mistero. In questo intrecciarsi di prospettive, chi arriverà per primo alla verità?

Don Camillo, di Julien Duvivier, Italia, Francia 1952

Alziamola ancora di più, la posta: qui arriviamo addirittura alla prospettiva di Dio! Sono cinque i film che compongono questa popolarissima saga ambientata sulle rive del Po. Grazie al clamoroso successo del primo, seguirono Il ritorno di don Camillo, Don Camillo e l’onorevole Peppone, Don Camillo monsignore… ma non troppo e Il compagno don Camillo. Tutti girano intorno alle buffe baruffe dei due acerrrimi nemici-amici, il parroco e il sindaco comunista di un paesino della Bassa Padana. E in tutti, quando don Camillo sembra esagerare (si tratta di un simpaticissimo “pretone” di campagna degli anni ‘50 del secolo scorso, che non disdegna di menare le mani all’occorrenza) ecco arrivare la voce “fuori campo” di Nostro Signore, che lo invita saggiamente e dolcemente a rientrare in sé, a essere savio, a perdonare. Le prospettive degli umani, divisi dalla politica e impegnati in una lotta continua (sempre però venata di bonario umorismo) e la prospettiva dell’Onnipotente, che tutto vede e tutto sa, e che non si stanca mai di riportare gli uomini alla ragione.

E un’ulteriore prospettiva, a pensarci bene: quella del geniale autore di tutte queste storie, lo scrittore emiliano Giovannino Guareschi. Eccola, la prospettiva suprema. È lui il vero “dio” del racconto, il burattinaio che decide ogni mossa. Nello scrittore scopriamo la prospettiva suprema, che tutto vede e tutto muove. Guareschi ha letteralmente “creato” un mondo, da lui chiamato Mondo Piccolo. Vi sembra cosa da poco?

Rashomon, di Akira Kurosawa, Giappone 1950

La realtà è una, la verità è una, ma siamo sicuri di saperle riconoscere? Quello che il grande schermo ci mostra in qualsiasi film è, insieme, la realtà e una parte di essa. In un primo momento, noi spettatori cadiamo nell’illusione di essere di fronte a una riproduzione oggettiva di quello che sta di fronte alla macchina da presa. Ma basta riflettere un attimo per capire che non è così: ogni inquadratura è frutto di una scelta del regista e del direttore della fotografia, anche quando si tratta di un documentario. La realtà che vediamo è “una parte” della realtà, la nostra visuale è sempre limitata. Il film di Kurosawa, ambientato nel Medioevo giapponese, focalizza questa ambiguità del sapere e della visione. C’è stato un atto di feroce violenza nel bosco: un samurai è stato ucciso, la moglie violentata. Chi è stato? Il sospettato, la donna e altri testimoni offrono versioni diverse. Addirittura si ricorre a una maga che dovrebbe far “parlare” l’anima del samurai. Che cos’è davvero successo in quel bosco? Ci verrà in soccorso, anche questa volta, la prospettiva del dio-autore, oppure verremo lasciati nel dubbio? Il reale e le sue rappresentazioni sono sempre in conflitto, ci dice e ci mostra il grande maestro giapponese, che usava girare i suoi film utilizzando diverse cineprese allo stesso tempo, per poi scegliere come ri-costruire la realtà in fase di montaggio.

L’ambiguità è dunque la parola finale? Anche questa è una prospettiva…

Strategia del ragno, di Bernardo Bertolucci, Italia 1970

Il mito e la storia, due prospettive radicalmente diverse. La storia ricerca l’oggettività dei fatti accaduti, il mito inventa le sue fantastiche leggende, e attraverso “poetiche bugie” tenta si svelarci il significato “vero” di quanto è successo. Mito e storia si confrontano anche quando parliamo di chi ebbe il coraggio di ribellarsi alla dittatura di Benito Mussolini. Nel complesso film di Bertolucci, molti anni dopo quegli avvenimenti, il figlio di un eroe antifascista visita il piccolo paese padano in cui il padre è stato ucciso nel 1936. La sua memoria è sempre viva, il suo mito è cresciuto, diventando un simbolo della successiva Resistenza. La prospettiva del mito ne ha fatto un personaggio intoccabile, un eroe, un esempio per le nuove generazioni. Ma il figlio vuole superare la prospettiva del Mito, per entrare in quella della Storia. Chi era davvero suo padre? Come sono andate le cose la sera in cui ha incontrato la morte? Ed è giusto abbandonare la prima prospettiva, che permette di chiudere il passato, rischiando di dissotterrare verità scomode, che possono diventare pericolose anche nel presente? Ispirandosi a un racconto del grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (Tema del traditore e dell’eroe) Bertolucci scava nella memoria, si interroga sui principi base della sua formazione umana e politica. E, tra il Mito e la Storia, lascia a noi il compito (doloroso) di decidere da che parte stare.

Giotto e il sogno del Rinascimento, di Francesco Invernizzi, Italia 2023

Che cosa inventò Giotto? È la domanda rivolta dalla professoressa di Storia dell’arte ai suoi turbolentissimi allievi, nel capolavoro di Federico Fellini Amarcord. E tutti insieme, prendendosi gioco dell’insegnante, i discolacci scandiscono: “La pro-spet-ti-va!”. Ecco, non si può concludere la serie di suggerimenti sui film legati in qualche modo alla prospettiva senza accennare alla storia dell’arte, ambito al quale la parola è strutturalmente legata. Il rivoluzionario lavoro di Giotto è analizzato in questo ricco documentario in relazione alla sua presenza a Padova, in particolar modo nella Cappella degli Scrovegni. Anticipando le scoperte del Rinascimento, la sua tecnica pittorica porta la pittura in un mondo nuovo, fatto di realtà concreta e di una immediatezza sconosciuta ai maestri precedenti. Ma il documentario non si ferma a lui: vengono analizzate le opere di Filippo Lippi, Paolo Uccello, Donatello e molti altri. Qui, a Padova, la Storia dell’arte cominciò davvero a percorrere nuove vie.


Crediti immagine: Peter Zurek – Shutterstock

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